Capitolo 2: il coniglio bianco
Qualcosa
di nuovo e curioso animò il nuovo mattino a Borgomale: correva voce che un
prete stava rimettendo a posto la vecchia chiesa parrocchiale di “Santa Azzurra
della Laguna”.
La
notizia stupì perché l’edificio, oltre ad essere abbandonato da 60 anni, era
stato anche sconsacrato. Quindi, tecnicamente parlando, non avevano più un
valore religioso. Tutti si chiedevano: chi mai poteva essere così sciocco da
tentare di rimettere in piedi un luogo di cui non importava più nemmeno alla
stessa santa sede? Uno sciocco, ovviamente… anche se già da una sola occhiata
molti avevano capito subito che Don Walter non era da considerarlo tale.
La
voce del nuovo arrivato si era diffusa a macchia d’olio tra bisbigli e
passaparola, e i più curiosi erano andati a spiarlo. Si stupirono, oltre che
dell’aspetto, della forza che mostrò durante la pulizia della chiesa,
sollevando e spostando vecchi mobili e oggetti pesanti senza fatica. Chi aveva
pensato di derubarlo cambiò idea sia per quello, che per lo sguardo minaccioso
che rivolse.
“Che
strano uomo”, pensarono similmente molti.
Ma
così come era grande l’interesse nei suoi confronti, al tempo stesso lo era la
certezza che non sarebbe durato a lungo. Non era la prima persona che tentava
di portare del buono a Borgomale e nonostante i propositi, alla fine nessuno
riusciva davvero a portarli a termine.
<<
Oh, era ora. >> esclamò Mezzanotte quando vide arrivare un grosso
furgone.
Il
veicolo parcheggiò nel vecchio cortile adiacente che era divenuto regno di
erbacce, oltre che nascondiglio di lucertole e scarafaggi. Il furgone aveva una
forma un po' bombata e il tetto a segmenti esagonali, i paraurti erano spessi e
coprivano gran parte delle ruote nere e dalle tubature che collegavano il
motore a tutto il mezzo uscivano continui sbuffi di vapore caldo. Sembrava un
po' una specie di tartaruga, con l’unica differenza che questa era pronta ad
una precipitosa fuga in qualsiasi momento.
<<
Avete già portato tutto quello che avevo chiesto? Siete efficienti. >>
<<
No, previdenti. Ci hanno detto di non tornare una seconda volta in questo buco.
>>
Don
Walter sospirò, ormai aveva imparato quanto fosse profonda la diffidenza dei
cittadini nei confronti di Borgomale.
Le
madri la usavano come “minaccia” per spaventare i figli disubbidienti e la
polizia faceva spesso ronde agli ingressi dei ponti per assicurarsi che nessuno
vi entrasse o ne uscisse, altri preti e persino qualche abitante del luogo
aveva provato a convincerlo ad abbandonare qualunque progetto egli avesse in
mente.
I
corrieri scaricarono tutti i pacchi accatastandoli a caso nel cortile, erano
quasi tutte larghe casse di legno con su scritto “fragile” oppure “pesante” e
su ognuno era attaccato un foglio su cui c’era scritto il contenuto.
<<
Mi spiegate come devo attivarli? >>
<<
È tutto scritto nel manuale, basta seguire le istruzioni. Noi adesso dobbiamo
andare, abbiamo altre consegne da fare. >>
<<
Ehi, almeno mi garantite che questi affari funzionano? Ehi!>>
Il
furgone sgommò via, ignorando il prete mentre veniva intossicato dallo smog
rilasciato dalla marmitta. Si mise le mani ai fianchi, incredulo dalla
situazione. Beh, non era la prima volta che era costretto a cavarsela da solo,
molte delle cose che sapeva fare le aveva imparate senza aiuto di necessità
virtù, anziché seguendo la guida di un maestro.
<<
Chi lavora, Dio gli dona. >> si disse da solo, motivandosi.
Lesse
le bolle per capire quali avessero la priorità e quali invece poteva lasciare
ancora chiuse, mettendole così insieme in ordine di importanza. Fu in quel
momento che notò in lontananza degli uomini che lo osservavano… o, meglio, che
osservavano interessati le casse arrivate. Non ci voleva un genio per capire
che alla prima occasione avrebbero tentato di rubarle, intuendo che il
contenuto fosse in qualche modo importante, avevano un atteggiamento molto più
spavaldo rispetto a quello di altri individui che l’avevano tenuto d’occhio per
tutto il tempo.
Sapeva
di dover stare attento, dopotutto Borgomale era covo di ladri, ma non si fece
intimidire né da quegli sguardi, né dalle loro intenzioni. Non gli rivolse
parola e nemmeno li guardò male, scelse di continuare a lavorare come se niente
fosse. Le casse che non gli servivano se le caricò sulle spalle e le portò
dentro la chiesa in modo da occuparsene dopo, quelle di cui già gli serviva il
contenuto le aprì scardinandone un lato con le mani, spezzando in legno come
fosse un grissino che poi delicatamente buttò da parte.
Gli
uomini rimassero a fisarlo a bocca aperta, increduli della sua forza. Si
scambiarono delle occhiate preoccupate e poi via, se ne andarono a gambe levate
decidendo saggiamente di non dargli noia.
<< Funziona sempre. >> disse ridacchiando il prete.
Fontebianca
godeva dell’attenzione che il mondo gli riservava.
La
“marea” turisti era sempre vista con buon entusiasmo, in quanto significava
pubblicità e tanti soldi.
Considerata
la sua vicinanza con l’acqua, molti dettagli urbani erano stati convertiti per
riflettere questo elemento: ad esempio, le lampade dei lampioni erano poggiate
su delle conchiglie aperte, molte delle case erano dipinte di varie tonalità di
blu e azzurro e le nuove cabine telefoniche sembravano delle reti da pesca
sulla cui cima stazionavano piccoli pesci e persino granchi.
Man
mano che la città cresceva, si era cercato di migliorare l’ospitalità locale in
modo da dare una buona impressione ai visitatori per invogliarli a tornare e
soprattutto a spendere i loro averi nelle taverne, gli hotel e le botteghe. Un
dettaglio di nota di cui i locali andavano fieri erano gli spessi tubi di ghisa
che emergevano ad arco dal terreno, la cui funzione era portare calore
all’interno delle strutture, districandosi in tutta la città come dei grossi
serpenti.
Alcuni
furbi imprenditori erano riusciti ad avviare un’attività nei quartieri di “San
Nicola” e di “Gugliadoro”, luoghi fra i più frequentati.
Il
quartiere San Nicola comprendeva principalmente il porto, i cantieri navali e
anche alcuni uffici. Si trattava di un luogo dedito più al lavoro che al
turismo, ma nascosti tra i palazzi e le vie che costeggiavano sottili canaletti
esistevano ancora antiche botteghe sopravvissute alla modernità dei tempi e che
i forestieri trovavano interessanti. Era proprio in quei posti che i mariuoli
trovavano facili occasioni di “lavoro”, borseggiando i passanti spesso senza
che se ne rendessero conto. Fingere di chiedere un’informazione, una spallata
data all’apparenza per sbaglio, una gentilezza… erano tanti i modi per sfilare
da borse e tasche borsellini e porta monete, o addirittura gioielli e orologi. E se il colpo non fosse riuscito, sarebbe
restato solo da scappare.
Avere
buone gambe per correre era necessario tanto quanto avere la mano leggera per
rubare.
Era
proprio su questi aspetti che uno dei più noti delinquenti di Fontebianca,
soprannominato il “Coniglio Bianco”, stava affidandosi dopo essere stato notato
da un poliziotto a portare via il portafoglio di un turista. Il fischio del
vigilante attirò l’attenzione delle persone e di altri colleghi che intervennero
al richiamo per dare una mano, distinguendosi con le loro uniformi blu scuro e
gli inserti neri e rossi, nonché per gli stemmi scintillanti del loro corpo
militare, cuciti sui cappelli che da un momento all’altro potevano volare via
nella corsa. L’individuo non era preoccupato del numero di inseguitori, anzi;
la considerava l’ennesima sfida contro sé stesso per dimostrare che sarebbe di
nuovo riuscito a farla franca. Si infilò per le strade più strette, scavalcando
ostacoli e schivando persino auto in corsa, intralciò i suoi inseguitori gettando per strada bidoni dei
rifiuti oppure cassette di frutta o di pesce. “Guardie e Ladri” era un gioco
che non lo annoiava mai perché ogni volta era sempre diverso… e in particolare perché
vinceva sempre lui.
“Oh
cavolo, sono in ritardo.” Pensò ad un certo punto, sentendo i
rintocchi del campanile della chiesa segnare l’ora.
A
malincuore interruppe il gioco, seminando i poliziotti con un atletico salto
che gli permise di scalare velocemente una parete come se avesse le ali ai
piedi, raggiungendo i tetti delle case parzialmente coperti dal fumo dei
comignoli. Per strada, senza modo di raggiungerlo, gli altri sbraitavano di
rabbia e alcuni avevano persino buttato a terra i berretti per la frustrazione.
Non ne potevano più di essere umiliati da quell’individuo, primo o poi sarebbero
riusciti ad arrestarlo e finalmente le strade di Fontebianca sarebbero state
più sicure.
Intanto
il “Coniglio Bianco”, anche se non più inseguito, continuò a correre.
Aveva
un appuntamento importante e sarebbero stati grossi guai per lui se non
l’avesse rispettato. L’ultima volta che aveva fatto ritardo, non gliela avevano
fatta passare liscia e quando ci pensava poteva ancora sentire la sua schiena
sussultare di dolore per la “penitenza” subita. Alla fine, prendendo varie
scorciatoie e approfittando un passaggio a scrocco a bordo di uno dei tram che
attraversavano la città, riuscì ad arrivare a Borgomale.
Tra
le strade cupe del quartiere dovette rallentare il passo, anche se si
conoscevano quasi tutti tra loro era sempre meglio muoversi cautamente, in
particolare per non attirare l’attenzione di certi vicini poco amichevoli da
cui era bene stare alla larga.
<<
Finalmente sei arrivato. >> esordì un uomo dall’espressione seria che lo
stava aspettando fuori da un vecchio palazzone grigio a tre piani.
Indossava
un completo che si sarebbe potuto definire elegante, ma i bordi sfilacciati e
il tessuto sbiadito ne sottolineavano la qualità scadente e consunta.
<<
Ehi, stavolta sono puntuale. >> gli disse lo scippatore.
<<
Hai portato quella cosa? >>
<<
Certo. Appena prima di venire qui. >>
Il
ladro mostrò un grosso pacco che reggeva cautamente con entrambe le mani, il
contenuto era molto delicato e aveva preso più di una precauzione per
preservarlo.
L’altro
uomo vi sbirciò dentro per assicurarsi l’integrità del prodotto, guai a lui se
fosse stato il contrario. Certo che fosse tutto a posto, annuì soddisfatto e
aprì il portone del palazzo, facendogli cenno di entrare.
Si
sentivano grida acute all’interno del palazzo che, nonostante l’aspetto
vetusto; cercava di mostrarsi curato e pulito con mobili seminuovi e qualche
pianta disposta in giro. C’erano molte persone all’interno che passavano da una
stanza all’altra del palazzo, alcune con il volto stanco e altre invece ancora
energiche, dopo probabilmente una seconda o terza dose di caffè. Era stato lì
dentro tante di quelle volte che ricordava a memoria i nomi delle persone,
l’interno di ogni stanza e cosa c’era in ognuno dei piani. Non lo considerava
un luogo di lavoro, ma ci si trovava spesso a visitarlo per poter soddisfare le
esigenti richieste dei suoi occupanti.
<<
Sono felice che sei riuscito a venire. Oggi più che mai avevamo bisogno di te, soprattutto
dopo la notizia che ci hanno dato ieri. >>
<<
Non mi sorprende, è un grosso cambiamento dopo tanto tempo che non c’erano
state richieste. >>
<<
Già, quindi fai particolarmente attenzione, oggi sono parecchio agitati.
>>
<<
Tanto quanto? >>
<<
Li ho sentiti parlare del cavallo pazzo. >>
Aperta
l’ultima porta, i due uomini furono investiti dalle grida acute dei quindici
bambini che stavano giocando all’interno. Maschi e femmine si rincorrevano
oppure lottavano tra loro colpendosi con i cuscini dei propri letti, su alcuni
di questi erano stati poggiati dei larghi cartoni su cui erano disegnati torri
di castelli, draghi rampanti e alberi dalle folte chiome, alcuni gruppi
fingevano di essere impavidi cavalieri o principesse indifese. In un angolo
della stanza, sopra una coppia di tavoli, giacevano i resti in briciole o mezzi
mangiati di dolci e salati vari di cui gli odori aleggiavano ancora nell’aria,
sui bordi era invece attaccato un piccolo striscione su cui era scritto con
della vernice blu “Congratulazioni Luigi”.
Uno
dei bambini si accorse della presenza dei due uomini e subito punto il dito
verso il ladro, urlando a squarciagola il suo nome con l’entusiasmo tipico
della fanciullezza. Nell’immediato, come una sorta di effetto domino, il resto
del gruppo lo imitò e lo circondarono in un unico coro felice.
<<
E allora? Come sta il nostro festeggiato? >> chiese ad uno dei maschietti
del gruppo, l’unico che indossava una coroncina fatta di carta gialla.
<<
Sono superfelice! Questo è il giorno più super bello della mia vita! >>
gridò il bambino con sorriso a cui mancavano un incisivo.
<<
Bene! Questo è proprio ciò che volevo sentire! Però mi sembra che a questa
festa manchi ancora qualcosa… >>
I
bambini, incuriositi dalle parole dell’uomo, lo guardarono ripetendo “cosa?” con
un tono di voce che ricordava il pigolio di un pulcino. Fu allora che aprì la
scatola che aveva con sé, rivelando una torta al cioccolato la cui glassa era
perfettamente liscia e lucida, con i bordi decorati da granella di biscotti e
un ciuffo di panna che la incoronava al centro. Era un dolce semplice sia nel
gusto che nell’aspetto, ma per quei bambini era la cosa più splendida che
avessero mai visto, in particolare per il giovane festeggiato.
<<
Congratulazioni per la tua adozione Luigi. >>
<<
Grazie Vinny! >>
Il
vero nome del Coniglio Bianco era Vinicio Castelli, o semplicemente “Vinny”.
Vinicio
era un uomo alto, snello e con la faccia d’angelo che trapelava qualcosa di
furbo e i cui occhioni azzurri, i ricci biondi ribelli e il sorriso gentile gli
avrebbero permesso di passare per un ricco gentiluomo del paese, anziché un
delinquente. Vinicio si distingueva dalla massa sì, per il suo aspetto, ma non
nel senso normale. Egli difatti soffriva di una forma di vitiligine[1] segmentale localizzata
principalmente sull’area sinistra del volto, coprendo l’area dell’occhio e
parte della fronte, e su quasi tutto il braccio sinistro. Erano ancora tanti
quelli che si tenevano a distanza pensando che la sua condizione fosse
contagiosa, ma lui non ci faceva più caso da molti anni.
Come
abitante di Borgomale, egli cadeva in quella percentuale di residenti cresciuti
rubando e imbrogliando la gente benestante di Fontebianca. Era bravo in quello,
probabilmente era il migliore fra tutti i suoi “colleghi” in attività nel
quartiere. Sarebbe stato da lodare per le sue abilità, se non si fosse trattato
di qualcosa che andava contro la legge. Vinicio sapeva che rubare era
sbagliato, ma alla fine della giornata lo considerava un mestiere come un
altro, necessario per sopravvivere. Oltre ad essere atletico era anche svelto
di mente, non c’era molti tipi altrettanto svegli e furbi da quelle parti… e
quelli che invece lo erano, invece; non possedevano certi scrupoli che lui, al
contrario; si teneva ben stretti. Ad esempio, Vinicio ci teneva ad aiutare i
bambini dell’orfanotrofio “Piccolo Angelo della Pace” di cui era un affiatato
volontario. Donava parte dei suoi “risparmi” ai volontari per pagare le
numerose spese, offriva sempre una mano per eventuali riparazioni e,
soprattutto; non ci pensava due volte a far compagnia ai bambini che
stravedevano per lui.
Non
si stancava mai di giocare con loro, raccontargli fiabe o semplicemente
tenergli compagnia quando erano ammalati… e un appuntamento a cui non mancava
mai era quando venivano finalmente adottati.
<<
Questa è la quarta adozione di quest’anno… non ne avevamo mai avute così tante
prima d’ora. >> disse commosso l’uomo accanto a lui, ossia il vecchio
Direttore Gallo.
<<
Non ricordo quando è stata l’ultima volta che sentivo così tante risate felici
in questo vecchio posto… se dovessi morire adesso, me ne andrei felice. >>
<<
Ce ne vuole prima che tu tiri le cuoia. Con la pellaccia dura che ti ritrovi,
camperai anche più a lungo di me. >>
<<
Questo è sicuro, se ti ostini ad incoraggiare la polizia. Prima o poi ti
prenderanno, e appena ti sbattono in prigione, ti ammazzeranno. >>
<<
Pessimista come al solito. Non mi prenderanno mai. >>
<<
Vinny, te ne prego. Ascoltami una buona volta. >> la voce del Direttore
si fece ansiosa.
Afferrò
una spalla di Vinicio e la scosse fermamente. Lui distolse lo sguardo cercando
di fingere noia, quando in realtà era un modo codardo per non dover affrontare
un sentimentale argomento.
<<
Vattene da questo posto. Mio fratello ha ancora un posto libero nella sua
fabbrica, a Notera. La paga è ottima, la città tranquilla… puoi rifarti una
vita lì, onesta e dignitosa. >>
<<
Buon Dio, Antonio, ancora con questa storia? Quante volte ancora dovrai
ripetermelo? Non mi interessa. >>
<<
Perché no? Dannazione, almeno abbi la decenza di dirmelo! >>
Vinicio
mandò giù un pezzo della torta che lo stesso festeggiato gli aveva ceduto,
cercando addolcire l’amaro che stava formandosi in fondo alla gola. Fissava
ogni partecipante alla festicciola, i sorrisi ancora innocenti della loro età e
gli occhi pieni di sogni e speranze non ancora infranti.
<<
Perché finché ci sono io qui fare il lavoro sporco, loro hanno un’occasione di
rigare dritto. >> rispose, dopo un lungo silenzio.
Ad
un tratto uno dei dipendenti interruppe la conversazione informando che c’era
qualcuno a telefono per Vinicio.
Di
colpo la torta perse tutto il suo buon sapore; già sapeva di si trattava.
<<
Pronto? >> chiese, dopo aver poggiato all’orecchio la cornetta del
telefono.
In
sottofondo sentì il motivetto di una vecchia canzone di musica classica, una
sinfonia che gli fece istintivamente alzare gli occhi al cielo, nauseato per
tutte le volte che l’aveva sentita.
<<
Finalmente ti trovo, disgraziato. Cosa diavolo stai facendo? >> rispose
una voce rauca e infastidita, a cui si susseguirono dei forti colpi di tosse.
<<
Sono ad una festa, che c’è? >>
<<
Lo sapevo che eri di nuovo da quei mocciosi. C’è che a differenza di te io
lavoro, brutto fannullone che non sei altro. È da un’ora che ti aspetto qui a
casa del Gabbiano… Te lo ricordi che ci aveva convocato per un’offerta di
lavoro, vero? >>
<<
Boh? Forse? >>
L’Interlocutore
si sfogò in una lunga sequela di insulti irripetibili, Vinicio dovette
allontanare la cornetta per non restare assordato.
<<
A meno che non preferisci avere il culo scambiato con la faccia, muoviti a
venire qui! Invece di perdere tempo con quei morti di fame, preoccupati di svolgere
il lavoro che ti viene chiesto! >>
<<
Eh, come sei noioso. Se fosse per te non ci si divertirebbe mai, ci sarebbe
sempre e solo il lavoro. Goditi un po' la vita, qualche volta. >>
<<
Il coniglietto a ragione, la vita ogni tanto va goduta serenamente. >>
La
voce che sentì in sottofondo gli diede i brividi.
Vinicio
si definiva una persona tranquilla e a cui poche cose lo facevano innervosire.
Al contrario, c’era invece qualcosa… o meglio, qualcuno che non poteva proprio
sopportare nemmeno sentendone il nome.
Si
faceva chiamare il “Gabbiano”, ed era uno stronzo.
Era
a capo del gruppo criminale più attivo lì a Fontebianca, si poteva quasi dire
che la sua organizzazione fosse quasi al pari di un’azienda perché era stata
capace di raggiungere una impressionante pianificazione fatta di furti su
commissione, riciclo di denaro sporco e pericolosi ricatti che tenevano in
scacco alcuni personaggi influenti della città. Grazie a ciò, quel bastardo
poteva condurre la bella la vita. Nonostante la sua fama era nota anche alle
forze dell’ordine, la mancanza di prove e testimoni, che per fortunate
coincidenze “sparivano”; gli concedevano di restare a piede libero. Quasi tutti
i criminali di Borgomale lavoravano per lui e dicevano che era conveniente
stare alle sue dipendenze visto quanto potevano guadagnare, Vinicio, invece;
non ci voleva avere nulla a che fare con lui, consapevole di quanto fosse
marcio e fin dove fosse in grado di spingersi per soddisfare la sua sete di
soldi e potere.
<<
Signor Castelli, non si preoccupi di ciò che dice il suo amico. Resti pure alla
festa, non c’è bisogno che mi raggiunga qui a casa. >>
“E
chi aveva voglia di venire?” pensò Vinicio.
<<
Anzi, per non scomodarla dopo, possiamo parlarne al telefono. Le prenderò solo
qualche minuto, il tempo per presentarle una proposta di lavoro… >>
<<
La ringrazio ma sono già pieno di impegni. Sarò disponibile per una
collaborazione forse fra “ventordici” anni. >>
<<
Andiamo, la pagherò bene. Le garantisco che è un’offerta molto vantaggiosa.
>>
<<
E io le garantisco che non sono interessato, grazie. >>
Anche
se non poteva vederlo, dal sospiro che sentì alla cornetta capì che il Gabbiano
era infastidito dal rifiuto.
Ciò
nonostante, quando tornò a parlare; non si scompose e mantenne un tono
cordiale.
<<
Mi dispiace sentire questo, mi avrebbe davvero fatto piacere se avesse potuto
lavorare per me. Le sue doti sono straordinarie, è quasi un super eroe. >>
<<
Signore, la prego. Adoro i complimenti, ma non mi faranno cambiare idea. >>
<<
Lo so, lo so bene. Però vede… non mi viene in mente nessuno altrettanto in
gamba nel poter chiedere di entrare negli uffici della “Fondazione
delle Acque Benedette”. Ho ottimi impiegati alle mie dipendenze, ma nessuno
si avvicina al suo livello. >>
Vinicio
rimase a bocca aperta, incredulo da ciò che aveva appena sentito.
<<
Ma che è? È matto per caso? >> disse al Gabbiano, guardando il ricevitore
scioccato. << Mi vuole assumere per entrare negli uffici della chiesa?
>>
<<
Si, perché vede… >>
<<
Ma anche no! Mica son scemo! Sono un ladro sì, ma dalla chiesa non prendo
nulla! >>
<<
Le assicuro che gran parte di quella gente ha intenzioni nobili quanto le mie.
>>
<<
Grazie al cazzo, lo so bene. Ma è comunque sbagliato! Quindi, no! Si dimentichi
di me! >>
Al
telefono ci fu di nuovo silenzio, ma stavolta non percepiva quel disappunto di
prima e onestamente, non prometteva bene.
Sentì
rumore di carta che veniva sfogliata, poi quello di una penna che scriveva. Poi
il Gabbiano si rivolse all’altro uomo, collega di Vinicio, chiedendogli se
eventualmente avesse tempo per fargli un favore nel caso non si metterebbero
d’accordo.
<<
Posso farle una domanda? >>
<<
No. >>
<<
Sa dove si trova “Calle[2] dei Pozzi”? >>
Vinicio
smise di respirare, era la strada in cui si trovava l’orfanotrofio. Senza farlo
parlare, il mafioso gli fece capire che da quelle parti sarebbero capitati
molti incidenti se non gli avesse fatto quel favore, garantendo il rischio che
potessero andarci di mezzo i residenti… e in particolare i bambini, e di questo
un certo signor Gallo, non ne sarebbe stato molto contento.
<<
Mi fa schifo. >> osò dirgli Vinicio, furibondo.
<<
Se stasera passa da casa mia le spiegherò nel dettaglio cosa dovrà fare. Oh,
spero che non sia allergico ai gatti, il mio caro micio Emo sta poco bene e ha
bisogno di compagnia, quindi sono costretto a portarmelo ovunque. >>
<<
Adoro gli animali…. >>
<<
Bene. A stasera allora, arrivederci. >>
Non
appena la comunicazione si chiuse, Vinicio lanciò via la cornetta che rimase a
penzoloni sul tavolino con il filo corto.
“Stronzo!
Stronzo! Stronzo!” ripetè mentalmente, mentre colpiva il
muro.
“Che Dio ti fulmini!” gli augurò.
Il
Cimitero di San Andrea era come qualsiasi altro cimitero: triste, cupo… ma al
contrario di molti altri, particolarmente bello.
Non
c’era lapide o cappella che non avesse ornamenti di pietra con rassicuranti
figure angeliche o elementi della natura, a volte persino qualcosa che
richiamava un dettaglio della vita della persona defunta. C’era, per esempio;
la cappella dei Costantini, antica famiglia di gondolieri, il cui tetto stesso
ricordava quello del felze[3]; oppure la tomba del
giudice Zennaro, uomo che in vita fu molto rispettato per il contributo nel far
rispettare la legge, che oltre ad avere un commosso epitaffio alla sua memoria,
aveva la lapide protetta dalla dea della giustizia che reggeva una bilancia di
ottone dorato. Per questo motivo il comune si assicurava di assumere dipendenti
che sapessero mantenerla in buono stato e pulita, lì dove le loro capacità
glielo permettevano. I più recenti dipendenti, però; avevano maggior interesse
nel guadagno facile, anziché nella cura dei defunti.
All’insaputa
delle autorità e delle famiglie che venivano a porgere un fiore sulle tombe,
tre nuovi assunti, uno smilzo dai capelli neri, un nano del centro nord del
paese e un vecchio orbo, si erano messi d’accordo per lucrare a discapito dei
morti. Quando lasciati incustoditi nelle cappelle del commiato, li depredavano
dei beni materiali lasciati addosso come anelli o bracciali, oppure;
all’insaputa dei parenti, ne disseppellivano le spoglie appena sepolte e
rivendevano gli organi a clienti che ne richiedevano per motivi di cui avevano
il buon senso di non chiedere informazioni. Per l’orbo non era la prima volta
che si “dilettava” in questo tipo di lavoro, difatti il suo atteggiamento era
freddo e distaccato mentre caricava i cadaveri su un carretto come fossero
sacchi di patate.
<<
Avete sentito? Stavolta non era la mia immaginazione. >> disse il nano,
voltando la lanterna verso l’interno del cimitero.
Forse
era l’impressione che gli dava il suo collega, forse l’atmosfera del cimitero,
ma da quando avevano cominciato a disseppellire cadaveri, si sentiva molto
nervoso.
Non
era un tipo suggestionabile o che aveva timore della morte, quella notte però c’era
qualcosa che non quadrava e da quando aveva cominciato il turno sentiva strani
rumori e qualcosa di simile a movimenti furtivi ogni volta che dava le spalle
al campo santo, ma le sue apprensioni caddero sorde alle orecchie dei suoi
colleghi.
<<
E piantala, stasera sei proprio una piaga con ‘sta fissa dei rumori. >>
<<
Ti dico che c’è qualcosa qui… non siamo soli stasera. >>
<<
E certo che non siamo soli. Siamo in un cimitero. >>
<<
Smettila di prendermi per il culo! È una cosa seria! >>
<<
State zitti tutti e due. Risparmiate il fiato per scavare, piuttosto che
ciarlare a vuoto. Abbiamo ancora tre tombe da disseppellire, quindi datevi da
fare, se volete che veniamo pagati. >>
Il
nano e lo smilzo eseguirono l’ordine, cominciando a smuovere la terra della
tomba su cui ci stavamo irrispettosamente sopra. Scavarono per cinque minuti
prima che un sordo brontolio li fermò, facendo ridere uno di loro.
<<
Ma che hai, fame proprio adesso? In questo posto? >>
<<
Guarda che non era il mio stomaco. >>
<<
Il mio nemmeno. Te che ci dici invece, vecchio? >>
L’orbo
non c’era più, lo smilzo e il nano erano rimasti da soli con il carretto da cui
pendeva un sacco da fuoriusciva una pallida mano. I due uomini si guardarono
intorno confusi, certi di non averlo né visto, né sentito allontanarsi. L’assenza
del suo basso e costante brontolare ampliò il silenzio del cimitero che era
diventato più buio, di colpo si sentirono in balia del vuoto che aleggiava in
quel mesto posto e i soldi non apparvero più un buon pretesto per restare lì
dentro.
Prima
che la necessità di scappare arrivasse ai loro cervelli, qualcosa arrivò alle
loro spalle più veloce del pensiero. Gelida, letale e spaventosa.
[1] La
vitiligine è una condizione cronica della pelle, nella grande maggioranza dei
casi non congenita[1], caratterizzata da ipomelanosi o leucodermia cioè dalla
comparsa sulla cute, sui peli o sulle mucose, di chiazze non pigmentate, cioè
zone dove manca del tutto la fisiologica colorazione dovuta alla melanina, e
che appaiono bianche o traslucide.
[2] Il
termine Calle deriva dal latino callis, cha significa viottolo, sentiero,
mulattiera.
[3] Il felze
era una cupola che veniva posta sulla gondola per proteggere il passeggero
dalla pioggia e dalle intemperie.
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